La profezia dello yagé

con decreto ministeriale del 23 febbraio del 2022 il governo italiano ha inserito l’ayahuasca in tabella 1 (leggi qui »). Questo articolo non vuole incitare all’uso dell’ayahuasca ma solo informare, in un’ottica di riduzione del danno, chi ne continui ugualmente a far uso.

Un racconto poetico di una giornata con un Taita Colombiano, che racconta come in 10 anni l’afflusso di turisti in cerca del mitico yagé abbia cambiato i connotati della sua terra e delle sue tradizioni.

Una leggera pioggia cade sopra Mocoa, la capitale del dipartimento del Putumayo nel sud della Colombia. Sono le otto della mattina, stà cominciando la stagione delle piogge. Fino a pochi anni fa raggiungere questa regione era impossibile, era il punto di massima concentrazione di scontri armati tra lo Stato Colombiano, i guerriglieri, i paramilitari e i narcotrafficanti, per la cocaina. Per molto tempo il Putumayo è stato il luogo con il maggior numero di coltivazioni di coca per metro quadrato nel mondo.

Stiamo aspettando Pepe, tassista che ci porterà alla Valle del Sibundoy. Lì si trova la riserva indigena dei Camëntšá, che in spagnolo significa “uomo di questo posto con pensiero e lingua propria”. Pepe ci racconta che da vari giorni piove nella zona: “l’inverno è arrivato”. Ora ci sono meno turisti, non come la settimana passata quando ha portato una Tedesca che gli ha raccontato che per venire a Mocoa da Bogotà c’è voluto più tempo che per andare da Bogotà a Berlino. Dopo venti minuti di cammino arriviamo alla fine di una via dove l’unica cosa che si vede è la foresta.

Un cammino difficile

taita

Scendendo dalla macchina mettiamo gli stivali per la pioggia, acquistati nell’aeroporto di Mocoa, utensili indispensabili in questa terra umida e ribelle. Dopo dieci minuti di marcia, arriviamo a una casa di mattoni e tegole di latta in mezzo alla vegetazione. E’ la casa del Taita Guglielmo, medico indigeno della comunità. Mama Concha, la sua sposa, ci riceve e ci mostra il luogo dove dormiremo. Ci presenta le persone che vivono e lavorano nella casa, suo figlio Jairo e due lavoratori, ci presenta i cinque cani che ha e due pappagalli che ci accompagnano tutti i giorni all’ora di pranzo.

Il Taita Guglielmo è uno dei tanti medici indigeni che vivono nella Valle Sibundoy, dove molti stranieri e gente del luogo arrivano per consultarlo per diverse ragioni: pulizia del corpo, trattamento di infermità terminali, alleviare i sintomi di problemi mentali e qualsiasi altra soluzione per un’infinità di mali. Il Taita, con lo sguardo stanco, ci invita a sederci e fa domande sulla nostra lunga giornata.

Ospitalità indigena

Come è stato il viaggio? Come ci sembra la sua casa? Ci invita a bere nella notte il rimedio o pianta sacra, e ci racconta: “quando ero piccolo me ne andai di casa a 9 anni. Ho imparato a lavorare e maneggiare il rimedio [lo yagé], volevo apprendere il mistero della madre di tutte le piante della Selva! Lo yagesito…”

Un sospiro e continua… “non si sa esattamente come gli indigeni hanno iniziato a utilizzare lo yagé. In tutto il territorio è conosciuto, gli avi hanno lascito questa eredità, molti chiedono come lo hanno scoperto ma nessuno lo sa.. io mi sono chiesto da dove vengono i tuoni. Nessuno sa da dove, né quando se ne vanno. I tuoni sono spiriti e anche lo yagé è uno spirito, perché voi lo avete bevuto. Se non lo sai gestire ti confonde, se lo sai gestire allora lo puoi maneggiare. Quindi lo yagé è una pianta molto sacra. Ha curato cancri, ulcere, appendiciti. Lo yagé è un vino come il vino di Dio. Che Lui ci ha lasciato per aiutarci tra fratelli”.

Il Taita ci spiega che per conoscere la pianta devi provarla. Sennò non si può sapere cosa è, non si può capire tutti i suoi misteri. Lo yagé è una bevanda allucinogena e purgativa, utilizzata dai medici indigeni dell’Amazzonia, conosciuti come Taita o sciamani. Secondo le credenze popolari, lo yagé permette di entrare in contatto con gli spiriti della natura e dei propri avi, che guidano il medici indigeni nel trattamento delle malattie della gente. Lo yagé, o ayahuasca, come si dice in altre parti dell’Amazzonia, è composto da due piante. La prima è una liana che ha vari nomi nativi: yagé, caapi, dàpa, mihi, kahi, natema, pindé, yajé. Dopo alcuni minuti di cottura si aggiungono foglie di chacruna – la seconda pianta. Senza questa ultima pianta lo yagé risulta essere solo un semplice lassativo e non permette avere visioni né allucinazioni. E’ la charuna che procura le visioni.

Sulle origini dei Camëntša

Dalle origini della tribù Camëntša si sa molto poco. Non esistono manoscritti sulla sua storia, perché tutto si è trasmesso oralmente di generazione in generazione. Nonostante ciò alcuni antropologi, con l’aiuto degli indigeni, hanno sviluppato due teorie su queste origini.

La prima è la genealogia Chibcha, un’altra tribu indigena. Questa teoria è attribuita allo spostamento di una parte della tribu Chibcha dal centro del paese verso il territorio del Sibundoy a causa delle azioni belliche dei conquistatori.

La seconda è uno studio del cronista Alberto Jaujiabioy che ha realizzato uno studio comparativo degli elementi tanto rituali come artigianali di Camëntšá, con le caratteristiche dei popoli incontrati mentre attraversava l’Oceania, il Nord e il Sud America prima di arrivare al Sud della Colombia.

Il cronista trova vari punti in comune con le tribù dell’Oceania, dai materiali utilizzati nei loro rituali alla vita quotidiana. Però quando si parla con gli indigeni Camëntša, tutti sono d’accordo con la prima versione. Gli indigeni vengono dalla natura stessa, perché il Camëntšá ha fatto parte della sua evoluzione. Taita Guglielmo afferma che il suo tatarabuelo era metà uomo e metà tigre e viveva nel kakatempo; un luogo dove si trova la radice della natura, dove c’è l’essenza della vita e della creazione, e dove ogni Camëntšá sogna di arrivare prima o poi.

selva

Assumere yagé permette agli indigeni di avvicinarsi a questo luogo e cercare lo stadio ideale di equilibrio tra l’uomo e la natura. Se l’uomo si dispone, fluisce e rispetta i disegni della natura, allora riesce a raggiungere l’equilibrio. I Camëntšá hanno una leggenda sull’origine dello yagé: l’anaconda nascoste tutto il suo sapere in due piante, lo yagé e il chagropanga. La prima la dette al suo figlio, la tigre, perché la seminasse nelle terre basse del pacifico e dell’Amazzonia. La seconda la consegnò alla sua cugina Shiginquillanga affinché lo crescesse e lo accudisse nel fondo dei calanchi.

Il rituale di assunzione dello yagé

Sin dalla prima notte il taita offre lo yagé. Intorno alla mezzanotte inizia a disporre gli oggetti utilizzati nel rituale, che suo figlio o qualcuno dei suoi alunni hanno portato. Il taita ci spiega: “Il primo è la candela per il divino bambino”. Di fronte al luogo dell’assunzione si trova un altare di cemento e vetro. All’interno una statua di Gesù bambino in piedi e con le braccia aperte, e nella parte superiore é scritto “io regnerò” adornato da un fiocco azzurro che si intravede da lontano. Il secondo elemento importante sono le sigarette (mapacho) e l’agua ardiente, utilizzati dal Taita per purificare dai cattivi spiriti e dalle malattie. Dopo seguono un mazzo di differenti foglie tenute insieme da un laccio, che formano un mazzo e muovendosi generano un suono molto calmante che il Taita, insieme a un’armonica e alle maracas, utilizza per le canzoni che accompagnano tutta la cerimonia.

Il taita si dirige verso la parte posteriore della casa. Al suo ritorno, in un vaso bianco, porta il “rimedio”, come lo chiamano i Camëntša. Si è cambiato d’abito per il rituale, una cintura di colori e di forme geometriche intorno al capo e vari collari di pietre diverse e sognagli intorno al collo. Una volta che tutto è pronto per cominciare, Guglielmo saluta i presenti, domanda quali persone hanno già avuto esperienza con lo yagé e quali no. Domanda se qualcuno ha problemi cardiaci e se qualche donna è nel suo periodo mestruale. In caso di risposta affermativa non potranno partecipare alla cerimonia.

Si comincia il rituale prendendo una sigaretta, aspirando e soffiando il fumo con la bocca sull’apertura del vaso che contiene lo yagé. Serve una coppetta, fa il segno della croce e si dirige verso ognuno degli astanti in ordine dalla destra alla sinistra, dandogli la dose rispettiva. “Devi provare poco a poco per sentire che sapore ha”, mi dice Guglielmo dandomi la coppa di Yagé. Prendo un sorso e sento passare un sapore amaro di legno e piante, poi decido di berlo in una sola volta senza seguire il consiglio del Taita. Lui repllica: “è come l’agua ardiente o il brandy. Voi lo bevete poco a poco sentendo il sapore. Però se voi lo bevete tutto in una volta, allora non saprete mai cosa è che avete bevuto.”

Il taita DEVE bere

Finalmente il tatia procede a bere il suo bicchiere. “Alcuni Taita danno da bere ma loro non bevono. Questo non va bene, devi dare l’esempio, sennò come può uno dire cos’è lo yagé? Ha il sapore di quale pianta di quelle che hai conosciuto?” mi chiede. Non so che rispondere, comincio a sentire l’effetto della pianta e non riesco a far uscire una parola dalla bocca. Dietro al Taita c’è un muro con disegni di animali e colori della selva. Nel centro si trova una tigre dipinta, che osservo per venti o trenta minuti. Comincia a cambiare colore come anche tutto il disegno nel muro. Durante la cerimonia, in alcuni momenti, il Taita inizia il canto e l’esecuzione della musica per mezzo del mazzo di foglie, dell’armonica e dei collari di sonagli. Accompagna la sua melodia di parole mescolando il camëntša e lo spagnolo: “pulisci, pulisci / cura, pulisci, guarisci / mammina dei cieli / pulisci, cura / pulisci, guarisci, yagé.”

cerimoniaAll’improvviso sento voglia di vomitare. In questo stesso momento il Taita si alza, esce correndo verso la foresta. Mentre lo guardo uscire si trasforma in una tigre, la stessa che c’è nel muro. Mi  metto in piedi e cammino verso l’albero più vicino, dove vomito per molto tempo. Sento il Taita che vomita e penso che sono ruggiti di tigre. Brividi. Percepisco rumori che si avvicinano dalla foresta, vedo un’ombra e mi ritrovo fronte a fronte con il Taita: ha smesso di essere una tigre.

A seconda del proprio organismo, ogni persona può vomitare una o varie volte. Il Taita afferma che “si vomita molto se il corpo era molto contaminato e aveva bisogno di espellere tutte queste tossine”. Dopo che tutte le persone sono andate poco a poco liberandosi dalle sensazioni e dagli effetti, il Taita domanda chi vuole bere nuovamente lo yagé. Afferma che con questa bevuta si avranno meno effetti digestivi e maggiori visioni, se qualcuno ancora non ne ha avute, o si intensificheranno quelle che si stanno già avendo. Dopo aver realizzato lo stesso procedimento della prima volta, il Taita spiega: “lo yagesito elimina tutte le infezioni dal nostro costato, tante cose che ci abbiamo messo. Quando si gratta il canale di Panama, cos’è che troviamo? Amebiasi.” Per il resto della notte fino alle prime ore della mattina, ognuno resta con la sua esperienza e se qualcuno dei partecipanti vuole “pulizia” il Taita la realizza di fronte all’altare del divino bambino Gesù con l’aiuto dei sigari, dell’agua ardiente, dei canti e delle mani.

L’apprendista sciamana

Tra i partecipanti alla cerimonia si trova un’alunna di Guglielmo che negli ultimi 10 anni è  venuta ad apprendere i misteri dello yagé. Il suo nome è Patrizia e vive a Bogotà. Ha conosciuto lo yagé perché ha sofferto di una malattia terminale e afferma che lo yagé le ha salvato la vita. Dopo questa esperienza si è dedicata allo studio della pianta. Un’indigena nella capitale le ha raccomandato la Valle del Sibundoy, dove si è diretta e ha conosciuto il Taita Guglielmo, prendendo il rimedio per vari mesi. Ha cominciato ad accompagnare il Taita e la sua sposa mama Concha nei loro viaggi, quando andavano in altre città a dare yagé. Poi ha deciso elle stessa di dare la bevanda, che somministra in una casa affittata alla periferia di Bogotà.

Patrizia ci racconta alcune esperienze difficili che ha vissuto con i partecipanti del rituale. In un’occasione un membro del gruppo paramilitare AUC (autodifesa unita della Colombia) bevve la bibita e incominciò a entrare in trance. Si lasciò cadere a terra dove cominciò a sbattere la testa contro il suolo perdendo due denti. Tra lei e il Taita decisero di legarlo fino a che si fosse calmato. Tornando in sé ha poi spiegato che durante le visioni vedeva una a una le foto delle persone che aveva ucciso, ricordandosi le scene del macabro evento. Salutando con la faccia piena di sangue e senza due denti ringraziò il Taita dicendo che si sentiva meglio. Non tornò mai più a ripetere l’esperienza.

Un altro caso è quello di un’adolescente consumatrice di allucinogeni che voleva prendere lo yagé per confrontarsi con le sue paure e comprendere la sua dipendenza dalla droga. “Raggiunse il suo scopo. Attualmente prende il rimedio una volta al mese e ha lasciato la droga”, afferma Patrizia.

Questa stessa situazione l’ha vissuta la sorella del primo ministro francese Manuel Valls, Giovanna Valls. Dopo vari anni di dipendenza dalla droga nella sua città natale, Barcellona, decide su consiglio di un’amica, di viaggiare verso l’Amazzonia brasiliana, dove esiste un’ospedale diretto da medici indigeni. In capo a otto mesi nella clinica Giovanna poco a poco torna a sorridere alla vita. “Miracolo”, dice lei. Dopo i duri effetti secondari dello yagé, il clima e la vita nella foresta, riesce ad adattarsi e a lasciare le droghe.

Ayahuasca e sicurezza

L’ayahuasca è pericolosa se non si prende in forma controllata. Se la si rispetta, è una salvatrice. “In realtà – dichiara – con la ayahuasca uno si trova di fronte a se stesso. Dove io ero testarda, questa esperienza mi ha reso tollerante. Dove soffrivo, mi ha insegnato a dirlo a voce alta. Se ero fragile, mi ha dato forza. Se ero egoista per la droga, ha lasciato spazio alla generosità che faceva parte dei miei valori. Se avevo paura della morte, l’ayahuasca mi ha messo di fronte a me stessa. Se il perdono era il primo passo verso la luce, io ho saputo chiedere perdono e perdonare me stessa. La sostanza che viene dalla natura mi ha dato forza per sperare, e per svegliarmi dalla grande tenebra in cui mi trovavo.” Torna in Europa e dichiara che ha abbandonato la droga, ragione per cui decide di scrivere un libro (“Diario di una rinascita”, qui la recensione) raccontando la sua storia di come lo yagé l’ha aiutata ad abbandonare la sua dipendenza.

Guglielmo ricorda a Patrizia un tale Stuart, uno studioso svizzero di antropologia che passò sei mesi nella sua casa, conoscendo tutto sulla pianta. E finalmente, il caso più straordinario: una donna con cancro alla gola, che dopo aver bevuto yagé, ha vomitato una grande palla nera che l’ha curata dal suo male.

Accogliere sempre più turisti

L’alunna del taita commenta come la case è cresciuta rispetto alla prima volta che è arrivata circa dieci anni fa. Prima non c’era elettricità nè muri di mattoni nè acqua potabile, tantomeno materassi e televisione. Mi dice che sono fortunato perchè appena qualche giorno prima del nostro arrivò il taita ha comprato letti e materassi nuovi per gli alloggi degli invitati. Precedentemente i partecipanti delle cerimonie erano tutti della regione, però oggi vengono dagli Stati Uniti, dall’Europa, dal Sudamerica. “Tutto questi beni e i differenti turisti sono arrivati grazie alla pianta sacra”, afferma Patrizia.

Con il denaro delle cerimonie di yagé il taita si è costruito una cucina riservata all cottura della bevanda sacra. Lì un lavoratore stà tutto il giorno mescolando la miscela delle piante nel recipiente e tagliando legna per il fuoco. Entrando nella cucina, i fumi ubriacano. “Sono necessari cinque giorni per preparare lo yagé”, mi spiega lavorando. La sua quotidianità consiste nel rimuovere la preparazione e travasarla in altri recipienti che lascia riposare per alcuni giorni. Il resto del tempo taglia la pianta dello yagé in piccole parti, macina la cachruna, necessaria al decotto. Afferma che questo yagé il Taita lo usa per le sue sessioni o lo vende ad altri medici indigeni come Patrizia.

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Però questo boom della pianta ha generato vari cambiamenti nella vita quotidiana del Taita e dei Camëntšá. Nei terreni della comunità lo yagé è una monocoltura, lasciando ogni volta meno spazio alle coltivazioni tradizionali che garantiscono l’alimentazione quotidiana. C’è sempre meno mais o banane a disposizione della comunità, che ora deve comprare quello che prima gli dava la terra. E’ chiaro che l’esito del turismo intorno al rituale ancestrale non solo ha creato un mercato di clienti fedeli e sufficiente denaro per comprare alimenti, ma sta anche banalizzando poco a poco le credenze e i valori ancestrali della comunità.
Il turismo sciamanico ha generato una frattura nei rituali tradizionali Camëntšá. L’uscita dei medici indigeni verso il mercato delle grandi città capitali, a vendere il loro prodotto magico agli ansiosi clienti bevitori di intrugli indigeni della più pura “natura”, ha degradato il rituale acquistando nuove variabili che poco a poco debilitano la concezione profonda segnata dagli avi, mercificando i loro rituali, che prima erano solo all’interno della tribù, dove si effettuava lo scambio solo con altre comunità indigene.

Sciamani fake

Alcuni sciamani o medici indigeni inesperti incominciano ad espandersi nelle grandi città del continente e nelle capitali occidentali come Berlino e Parigi dove c’è la possibilità di bere la bevanda mescolata con altre piante per aumentarne l’effetto, il che può avere conseguenze pericolose per la salute dei partecipanti. In Spagna l’argentino Alberto Varela propone “ritiri di evoluzione interiore” e “consulenze personalizzate con l’ayahuasca”. Tutto in cambio di 1.650 euro. I medici indigeni di Sibundoy in compagnia di più di 100 accademici esperti in studi su tematiche amazzoniche e conoscitori dei rituali indigeni, hanno scritto un atto contro il cattivo uso che si sta facendo della pianta e hanno dichiarato: “Varela utilizza la pianta e promuove con tecniche di marketing il suo commercio (—) Il suo uso irresponsabile e le sue pratiche sono riprovevoli. (—) Stanno approfittando della dignità del nostro popolo. Stanno ingannando molte persone, portandole a Mocoa, Putumayo, per dargli la medicina senza tener conto dei rischi”.

E’ così che la pianta sacra dello yagé prende lo stesso cammino della coca, originaria dei popoli andini, con 5.000 anni di storia. Utilizzata dagli indigeni come coesivo sociale in rituali religiosi, come medicina, fonte di energia e compagna fondamentale nei lavori agricoli, è stata elemento sostanziale in diverse culture che hanno abitato la terra sudamericana prima dell’arrivo degli Spagnoli. Secoli dopo è stata trasformata e mal utilizzata da persone aliene a queste tradizioni.

Nell’anno 1500 Kiana-Chuyma, sacerdote tradizionale del tempio dell’Isola del Sole nel lago Titicaca, vicino a La Paz, dichiarava queste parole che si convertiranno in profezia: “…per voi sarà spiritualità, per loro follia… e quando i biachi cercheranno di fare lo stesso e oseranno loro stessi usare questa foglia come voi, a loro accadrà il contrario. Il suo succo, che per voi sarà forza di vita, per i vostri dominatori sarà un vizio ripugnante e degradante. Mentre per voi indigeni sarà un alimento quasi spirituale, per loro sarà causa di stupidità e pazzia!”

 

 

TRADOTTO DALL'ORIGINALE: http://www.viceversa-mag.com/la-profecia-del-yage/
Redazione Ayainfo

Questo articolo è stato tradotto dall'originale e l'autore dello stesso è menzionato all'inizio del testo. Per conoscere maggiori informazioni sull'autore seguire il link che cita la fonte.

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